UN PO’ DI STORIA DELLA MIA PROFESSIONE (POCA)


Gianfranco Plenizio partecipò come ospite d’onore alla presentazione del volume contenente l’opera omnia di Ottavio Paroni, musicista friulano che è stato il suo primo maestro. La pubblicazione contiene un saggio dello stesso Plenizio su Paroni e la lirica. La manifestazione si svolse a Bertiolo (Udine) il giorno 21 novembre alle ore 15.00.



Lasciate le steppe del Friuli centrale, nel 1965 sono venuto a Roma intenzionato a intraprendere una carriera di direttore d’orchestra soprattutto nel settore operistico. Ma le cose sono andate diversamente. La conoscenza di Giovanni Fusco mi ha portato a lavorare nel cinema. Il cinema allora mi appassionava e collaborare con tanto maestro era una grande scuola. Mi ci sono dedicato come compositore per una quindicina d’anni dopo di che ho continuato soltanto l’attività direttoriale. Ma è inutile soffermarsi su questo periodo e chi voglia può trovare una mia filmografia essenziale su Wikipedia. L’ultimo film realizzato come autore è stato E la nave va... di Federico Fellini. Lavoro impegnativo e importante, ma che è stato in qualche modo uno dei motivi del mio ritiro. Molti anni dopo (2006) ho pubblicato presso l’Editore Guida di Napoli un libretto di riflessioni sulla musica per film.

La copertina del libro citato qui di fianco.

Ne do un breve estratto:

« Nel 1983 ebbi l’occasione di collaborare con Federico Fellini per le musiche di ‘E la nave va...’. Il film era incentrato sul melodramma e nel commento c’erano molte citazioni/adattamenti di brani lirici e di altri fra i più famosi del repertorio classico. Uno di questi ultimi era il Clair de Lune tratto dalla ‘Suite bergamasque’ di Debussy. In una sequenza si poteva vedere un direttore d’orchestra accennarlo al pianoforte, stimolando la reazione di una celebre primadonna che si avvicinava allo strumento e cantava vocalizzando alcune frasi del tema. Il brano continuava poi, col solo pianoforte, come sottofondo a una serie di scene che si svolgevano all’aperto sul ponte della nave. Fellini mi aveva fatto tagliare le parti del pezzo che gli sembravano più ‘agitate’ assemblando quelle più consone alla conduzione della sequenza. Debussy non sarebbe stato contento, ma il volume era molto basso e quello che si coglieva sotto i dialoghi e gli effetti era non tanto un discorso musicale quanto una atmosfera languorosa e sognante. Fino a questo punto avevo partecipato alla realizzazione — insieme col soprano Mara Zampieri — cercando di ottenere la pacatezza esecutiva richiesta dal regista. E rassegnandomi ai tagli che aveva voluto praticare. Dopo tutto si trattava di un sottofondo appena udibile. Del resto anche altri brani avevano dovuto subire adattamenti e amputazioni ma erano stati adeguatamente inseriti nelle nuove partiture che li citavano o li contenevano.

Va sottolineato che nelle intenzioni di Fellini il film doveva sembrare un reperto d’epoca — infatti iniziava in una cupa tinta ocra per poi trasformarsi in colore — un reperto che era stato ‘sonorizzato’ successivamente e in modo approssimativo. Non a caso tutte le riprese che prevedevano parti cantate erano state girate su dei playback provvisori registrati con poche voci e pianoforte. La versione finale, quella che comprendeva i veri solisti, il coro e l’orchestra, venne realizzata dopo, in una specie di ‘doppiaggio’ musicale. Doppiaggio che Fellini volutamente richiedeva con qualche imprecisione, non perfettamente ‘sincrono’. Altro particolare curioso: credo che il film sia l’unico caso della storia del cinema in cui il sistema Dolby Stereo, che allora furoreggiava, venne usato in mono. Non si può escludere che queste scelte abbiano inciso su quanto andrò ad esporre. Ma ha poca importanza.

Nel laborioso progetto che comprendeva tutte le musiche del film, i due minuti circa dei titoli di coda dovevano rimanere in silenzio. L’intenzione di Fellini era di accompagnarli col solo rumore della perforazione. Quel rumore che fanno i buchi della pellicola scorrendo sul proiettore. Poi all’ultimo momento cambiò idea — o gli suggerirono di cambiarla. Applicando ai titoli di di coda una musica già ascoltata nel film: proprio il Clair de Lune. Ora, io ero stato a disposizione per tutta la fase della scelta delle musiche e per la preparazione dei playback provvisori, avevo assistito a tutte le riprese che avevano un contenuto musicale, avevo diretto e missato le registrazioni definitive. Ben oltre sei mesi di lavoro. Perfino nella fase del missaggio generale del film, ero stato convocato a Cinecittà perché a Fellini non piaceva il suono di un brano di pianoforte. Lo trovava ‘legnoso’.

Per cui era stato affittato un grancoda e portato nella grande sala di missaggio, il cosiddetto Cinefonico. Avevo dovuto rieseguire il brano ‘in diretta’, ripreso da un microfono di fortuna, mentre sul banco di regia scorrevano le altre colonne di effetti e dialoghi. A me sembrava che il grancoda Stainway nuovo che avevo impiegato all’Auditorium RAI nella prima versione suonasse molto meglio dello sgangherato pianaccio da balera che era arrivato al Cinefonico. Ma le mie erano solo orecchie da musicista e non potevo sapere quali fossero le superiori esigenze del film. E del resto se il Maestro chiedeva una cosa ero lieto di compiacerlo, per quanto bislacca la cosa fosse. Con queste premesse sarebbe stato semplicissimo dirmi: vieni a risuonare un paio di minuti del Clair de Lune. Ci sarebbe voluta al massimo una mezz’ora per dargli esattamente quello che voleva. Non accadde.

Fellini, suppongo aiutato dai suoi validi assistenti al montaggio, decise di impiegare la stessa registrazione che era già stata usata nel film. L’intoppo era che ad un certo punto entrava la voce del soprano, che nei titoli non avrebbe trovato una giustificazione. Si ‘assemblò’ pertanto il pezzo in modo diverso. Questo assemblaggio merita una descrizione.

L’inizio era esattamente quello del brano precedente, ma mentre nella scena originaria il ‘preludiare’ quasi distratto del direttore d’orchestra giustificava una certa vaghezza ritmica, qui senza il supporto delle immagini risultava slegato e dilettantesco. Completate le due prime esposizioni del tema, alla fine di battuta quattordici, non si proseguiva col ‘Tempo rubato’ prescritto, ma si tornava da capo. Però non all’inizio del tema bensì al terzo movimento della prima battuta con un montaggio — chissà come ottenuto — che non finisce ancor oggi di sbalordirmi per la sua arditezza. Ripetute le quattordici battute, con le stesse melensaggini, un brusco salto ci inseriva al ‘Calmato’ di battuta quarantatre che veniva drasticamente sfumato sette battute dopo, qualche secondo prima che finissero i titoli di coda. (Nel DVD i curatori, forse preoccupati di questo buco finale, hanno ripetuto non due ma tre volte le prime quattordici battute, di modo che la musica finisce con la consueta brusca sfumatura, ma un po’ dopo che i titoli hanno finito di scorrere.) Se l’obiettivo era quello di dare la sensazione di una sonorizzazione approssimativa e cialtrona, bisogna dire che era stato centrato in pieno. Ma se un linguaggio che ha una storia di secoli come quello musicale merita un qualche rispetto, una simile ‘confezione’ non può risultare che oltraggiosa. Personalmente condivido con molti l’ammirazione per il genio di Fellini e lavorare per lui è stata una esperienza spesso esaltante. Ma niente mi toglie dalla testa che come musicista fosse più bravo Debussy.»

La copertina del CD citato qui a fianco.

Una antologia di mie musiche per film è stata recentemente pubblicata dalle edizioni CAM, ovviamente solo la decina di film che avevo scritto per questa casa editrice.

Come si vede ci sono parecchi film di autori oggi dimenticati e di produzioni non certo faraoniche. Ma questo aveva anche dei vantaggi. Li espongo in questa breve introduzione.


« Intanto continuava la mia attività concertistica sia come direttore che come pianista. Nel primo caso occupandomi sopratutto di musica del Novecento. Nel secondo collaborando con la grande cantante statunitense Irene Oliver con la quale in numerosi concerti abbiamo esplorato i repertori del lied, della mélodie e del song inglese e americano. Oltre che dell’affascinante mondo degli spirituals di cui Irene era una delle massime specialiste. A metà degli anni Ottanta nacque l’associazione Imago Musica che oltre a me comprendeva i soprani Bernadette Lucarini e Lucia Scoca, il mezzosoprano Maria Grazia Casini e il baritono Roberto Abbondanza.

Con Imago Musica abbiamo realizzato molti concerti e alcuni CD.Come si può vedere dal programma la scelta dei brani era molto varia. Lo stesso avvenne per una realizzazione del 2000. Un’occhiata ai programmi può chiarire anche qui l’ampio raggio dell’antologia.

Si sarà notato che ci sono diversi autori italiani completamente sconosciuti. Dagli anni ’80 mi sto occupando di un materiale disprezzato e dimenticato: la vilipesa ‘romanza da salotto’. Finora ho raccolto un archivio con circa 20.000 brani e mi sono reso conto di quanto ingiusto fosse questo giudizio comunemente accettato.»

La copertina del CD intitolato «Musiche Proibite»

Dalle mie ricerche sulla vocalità cameristica italiana è nato un CD Musiche proibite — recentemente pubblicato sotto il patrocinio dell’Istituto Nazionale Tostiano — che mette in rilievo la grande capacità di comunicazione della romanza e i suoi rapporti con l’erotismo. I cantanti sono tutti di altissimo livello e la qualità della registrazione rende perfettamente l’ambiente del salotto borghese.

Dalle ricerche sulla vocalità cameristica dell’Ottocento e primo Novecento nasce anche il mio ultimo libro Lo core sperduto. La tradizione musicale napoletana e la canzone (331 pagine, 160 esempi musicali - ediz. Guida, Napoli, 2010). Napoli ha rappresentato un punto di incontro di tante culture mediterranee, da quella araba a quella spagnola. E fin dal Seicento aveva elaborato una prassi musicale molto particolare che nel Settecento era stata esportata dai maestri di cappella napoletani in tutta Europa. Esiste un particolare accordo che è conosciuto in tutto il mondo come ‘sesta napoletana’ e che è stato impiegato da Bach e Beethoven, fino a Chopin, Brahms etc. Ma nella tradizione partenopea tale accordo non si limitava al tessuto armonico ma influenzava anche le melodie che assumevano un carattere unico e immediatamente riconoscibile. Tale tradizione ha informato l’Ottocento napoletano dai Cottrau, Florimo, Mercadante, Biscardi fino ai grandi che hanno fatto la fortuna internazionale della canzone: Tosti, Denza, Costa e De Leva. Ma al grande successo mondiale è seguito un appiattimento su formule da ‘cucina internazionale’ che hanno fatto dimenticare la tradizione in favore di un linguaggio semplificato e banalizzato.

La copertina del libro «Lo core sperduto»

Vi do un estratto che parla proprio di questa trasformazione:

«Inoltre la canzone diventa sempre più un affare. (L’interesse della camorra è un sintomo evidente.) Ma l’affare non riguarda poeti e musicisti. Sul costo dichiarato di 300 lire per canzone, Bideri agli autori ne dava 11 mentre il resto era assorbito dalle presunte “spese”. Forse, oltre alla stampa, un editore doveva sovvenzionare clacques e ‘partiti’, oltre che allungare il ‘pizzo’ alle persone giuste. Probabilmente sul libro paga c’erano anche coloro che sulla canzone ci scrivevano: giornalisti, critici e ‘storici’. I quali contribuivano alacremente alla creazione delle leggende che sono arrivate fino a noi. Una delle più illuminanti riguarda la stesura della canzone, che per essere bella deve essere ‘improvvisata’. Abbiamo già preso nota che tutta Castellammare cantava Funiculì Funiculà prima che fosse completata, che Tosti ha scritto ‘A vucchella in mezz’ora chiuso a chiave dentro una stanza, che Tarantì tarantella era stata creata all’impronta da Costa dopo un banchetto, su sollecitazione degli altri commensali. E il nostro candido Acquaviva ci racconta che Nannì «...venne scritta di getto sul marmo di un tavolino del vecchio Caffè Napoli nella Villa Nazionale.» mentre ‘A Frangesa (con quelle armonie?) «fu composta su un tavolo della Birreria Strasburgo a Napoli...». Chissà se era di marmo anche quest’ultimo. Potrebbe essere una spiegazione per ispirazioni così rapinose e incontenibili. E poi De Leva che scrive la sua prima canzone a dodici anni, Vincenzo Valente a quattordici (forse era un po’ ‘ritardato’).

E importa poco che dette leggende abbiano o meno un fondo di verità, ciò che importa è che venga diffuso e ribadito il concetto che la creazione poetica e musicale è un fatto miracolistico, che si verifica a discrezione di San Gennaro. Secondo quasi tutti gli storici — e gli appassionati — è assolutamente assodato che per comporre non occorre ‘scuola’ e che anzi la scuola tarpa le ali. Così ciò che segnalava Di Giacomo «Di questi facili compositori qualcuno non ha neppur conosciuto da lontano non dico il contrappunto ma la porta del Conservatorio di San Pietro a Majella» lungi dall’essere un limite, diventa un titolo di merito. Le belle canzoni possono nascere solo in un terreno concimato con la ‘spontaneità’ ovvero con l’analfabetismo e l’incultura. Basta il fatidico ‘cuore’. Il celebre scrittore e poeta Libero Bovio, in un suo libro di memorie racconta come, da ragazzo, la madre pianista cercasse di accostarlo alla musica classica per scoraggiare i suoi propositi canzonettistici. «Mi convinceva invece della superiorità di Gambardella e di Di Capua su Beethoven.» In questo contesto, non fa meraviglia che i quattro compositori colti di cui mi sono fin qui occupato, abbiano scelto il silenzio.

La canzone napoletana procede su tali binari ottenendo apprezzamenti in tutto il mondo e creando schiere di entusiastici sostenitori. Soffre tuttavia di una specie di chiusura verso l’esterno. Chiusura che le impedisce di evolvere. Come ha suggerito Raffaele La Capria parlando della cultura partenopea in generale — e nel nostro caso in maniera ancora più eclatante — è diventata ‘autoreferenziale’. Gli appassionati ne hanno fatto un’icona e deve rimanere uguale a sé stessa. Non ci sono sostanziali differenze fra una canzonetta dei primi del Novecento e una di cinquant’anni dopo. Sarà allegra o malinconica, pensosa o trascinante. Ma il linguaggio è lo stesso. Questa uniformità che è stata alla base del suo trionfo contiene anche il germe del disfacimento. Del resto, è nell’ordine delle cose. Un sapiente latino affermava: Et orta occidunt et aucta senescunt. Ciò che è sorto tramonta, ciò che si è ingrandito invecchia.»

Nella foto di coprtina di Puro Habano Gianfranco Plenizio (a destra) con Zino Davidoff

La mia passione per i sigari avana ha prodotto due volumi entrambi pubblicati dall’editore Mursia, Milano: Avana nel corazon (1998) e Puro habano. Dialoghi puristi (2005). Il primo è stato di notevole aiuto ai fumatori debuttanti in quanto conteneva, oltre a una storia del sigaro, anche molti consigli pratici. E quattro dialoghi immaginari con Hernest Hemingway — grande fumatore oltre che romanziere e amante di Cuba — nei quali si affrontano svariati argomenti attinenti al sigaro e non. Per chi non sappia proprio che fare in fondo ne ho messo un estratto che mi sembra abbastanza divertente. Il secondo ha suscitato molte polemiche. All’epoca la situazione cubana non era delle migliori e la produzione ne risentiva. Quindi il libro conteneva diverse critiche alla conduzione produttiva. Anche questo volume era fondato su dialoghi immaginari con personaggi storici legati all’avana. Oggi la qualità è del puro cubano è migliorata notevolmente e io ho la presunzione di credere che ciò sia avvenuto anche per quelle critiche.

La copertina del libro «Avana nrl corazon»

Appendice per i perdigiorno. Avana nel corazon: Estratto dal Dialogo III con Hemingway:

«…Senta un po’ Eugène Marsan: “Franco e complesso, spirituale e nostalgico, un gran sigaro ha mille fascini. Ha il sapore di una strana terra. Viene dalle isole, dalle savane. Ed ha la sua alchimia: quel dedalo, quel labirinto di aromi che va dai profumi della foresta alla capigliatura femminile. Il loro ultimo sortilegio è frutto della loro eleganza...” Beh, è prosa un bel po’ diversa dalla Sua...»

E.H.: «Diversa? Opposta, direi. È un modo di scrivere ampolloso che a me ha sempre fatto...»

«Aspetti, aspetti. Senta qui. Parla quel Maurice des Ombiaux che abbiamo citato prima: “È solo dopo un avana che il padrone di casa che ha a cuore i suoi ospiti può dire come Orazio: Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo”. E i consigli che dava. Impareggiabili. Suggeriva di non fumare quando si cacciava l’orso, il lupo, il cinghiale giacché l’odore del fumo poteva allarmare la selvaggina. Però appena finita la caccia prescriveva un sigaro nero e forte, che si armonizzasse con il dolce odore delle foglie morte. Meraviglioso.»

E.H.: «Idiozie! Lei è mai stato a caccia?»

«Io...»

E.H.: «Ci sono vari tipi di caccia. C’è la caccia alle folaghe e quella alla lepre. E c’è quella che si fa con selvaggina che sa mostrare i denti e che comincia a diventare un po’ più pericolosa. E ci sono le bestie feroci, con le quali si rischia la pelle. Ma non c’è caccia paragonabile alla caccia all’uomo e coloro che sono andati per molto tempo a caccia di uomini armati e vi hanno provato piacere, dopo non s’interessano più di niente. E poi c’è il colpo più grosso di tutti, quello in cui cacciatore e preda coincidono... E io non ho sbagliato la mira... Lei che tipo di caccia ha fatto?»

«Maestro, non volevo farla inquietare... Caccia, cosa vuole... Quando ero ragazzo ci avevo provato. Poi ho dovuto smettere per un paio di stivali. Li avevo comprati nell’emporio del mio paese. Sa, dalle mie parti c’era una fitta rete di canali che permetteva di irrigare i campi anche nel secco dei mesi estivi. Adesso ci sono irrigatori a pioggia che mandano sulle colture bellissimi getti di venti e più metri. Ma se allora, in una notte di agosto, non si riusciva a dormire e ci si metteva in finestra a prendere una boccata d’aria, si poteva vedere ogni pochi minuti passare qualcuno in bicicletta, col portellone di ferro legato alla canna, gli stivali, il badile sulle spalle e il lanternino appeso dietro la sella. Questa di “dare l’acqua” o di “mollare l’acqua”, come si diceva allora, era una cosa che condizionava la vita. Maestro, ma io l’annoio...»

E.H.: «No. Mi interessa questa storia di acqua. Tutte le storie che parlano di acqua sono interessanti. Io ne so qualcosa. Vada avanti.»

«C’erano squadre di operai per pulire i canali, c’erano turni molto complicati e c’era un guardiano per ogni paese che aveva un gran daffare, notte e giorno, per far rispettare gli orari e controllare che nessuno prendesse minuti in più. Una cosa seria e impegnativa. Tant’è vero che il figlioletto del nostro guardiano, la prima volta che andò al mare, in colonia, arrivato sulla spiaggia chiese preoccupatissimo alla suora: “Chi ha mollato tutta quest’acqua?”. Ecco perché il nostro piccolo emporio vendeva anche stivali. Di quella gommaccia nera e scagliosa che si trovava allora. Costavano anche poco, ma io ci avevo messo tutti i miei risparmi. Vede, Maestro, mi era venuta la fissa della caccia. Di fronte a casa mia, in paese, abitava un giovanotto robusto, bruno e sempre allegro che era un appassionato cacciatore. E inoltre cantava da primo tenore nel coro e aveva una morosa di Trieste che ogni tanto veniva a trovarlo e che a noi villici sembrava raffinatissima, una vera cittadina. E fra tutte queste cose, per me ragazzo, lui era la cima di ogni perfezione. Spesso, verso sera, andavo a farci due chiacchiere mentre strigliava i cavalli e insinuavo astutamente domande sul calibro dei pallettoni e sulle costumanze delle starne. A casa, intanto, lavoravo ai fianchi mia madre. A giorni sarei ripartito per il collegio e questo mi dava un bel vantaggio. Spergiuravo che il mio amico era contento di portarmi con sé e che non gli avrei dato fastidio. Si era ai primi di ottobre e faceva già freddo. Di mattina presto i campi erano inondati di guazza e bastavano pochi passi per trovarsi bagnati fino al ginocchio. Per questo mi ero comprato gli stivali. Due numeri più grandi del mio piede, per non doverli smettere l’anno dopo. Chissà che carriera di cacciatore che mi immaginavo. Partimmo che era buio. Un po’ di chilometri in bicicletta, per sassose strade di campo. Pedalando gli stivali andavano benissimo. Avevo messo due solette e tre paia di calze. Poi a piedi. Cominciava il crepuscolo dell’alba. Da quelle parti e di quella stagione non si vede, come al solito, il cielo schiarirsi ad est e poi sorgere il sole. All’inizio c’è una luce che non si sa da dove venga, ogni cosa assume una strana tinta blu-viola come nei disegni delle ceramiche inglesi e rimane così per circa un quarto d’ora. Poi tutto diventa grigio ed è giorno. Ma per quel quarto d’ora si ha la sensazione di stare in un mondo stregato. C’è un vento freddo e gli uccelli ancora tacciono. Una volta ho scritto un pezzo di musica cercando di descrivere questo colore. Si chiama “Prima dell’alba” e non mi pare venuto male. Ma se si vuole che la gente capisca di che colore si tratta, bisogna spiegarlo prima.»

E.H.: «Sono stato anch’io a caccia da quelle parti.»

«Lo so. La caccia all’anatra. Nelle botti, alla foce del Tagliamento.»

E.H.: «Anche. Ma io intendo proprio nei posti di cui parla lei. Un mio amico aveva una tenuta lì vicino. Il conte Kechler. Si andava spesso a trovarlo.»

«Con la famosa Buick azzurra decapottabile. Devo averLa vista passare qualche volta. Ero proprio uno stupido ragazzetto e non sapevo chi era Lei. Mi piaceva soprattutto la macchina.»

E.H.: «Sì, potrebbe essere... Comunque, quel colore dell’alba non riesco a ricordarmelo.»

«C’era. Noi ci camminavamo in silenzio e quando tutto diventò grigio i cani cominciarono a correre e ad agitarsi. Dopo un po’ avevamo preso un fagiano e alcune quaglie. Ma il colpo più atteso era la lepre. Arrivammo a un grande fosso pieno di platani e di acacie e il cane si mise in ferma. Una bellissima posa, con la testa alta e la zampa destra sollevata. Ero perduto in ammirazione quando il mio amico mi tirò per la manica. Indicava un punto sulla sponda, vicino a un grande ceppo. Io vedevo solo foglie secche. “È grossa - disse lui - ed è cieca da un occhio”. Mentre bofonchiavo “dove, dove?” mi fece cenno di seguirlo. Uscimmo dal fosso posando i piedi con cautela per non far scricchiolare le foglie. Erano bagnate di guazza e non facevano quasi nessun rumore. Arrivati sulla proda, il giovanotto imbracciò la doppietta e fece un fischio. Il cane si mosse con fracasso e un lampo giallo schizzò fuori dal fosso. Due colpi e la lepre fece un gran salto in aria, graffiò per un attimo la terra e rimase immobile. Era davvero una bella bestia. Pesava, si seppe poi, più di cinque chili. E aveva un occhio bianco, calcinato dalla cataratta. A quel tempo io ero rimbambito dietro i romantici tedeschi: Hoffmann, Tieck, Uhland, Lenau. Mi bastava passare vicino a una fratta per immaginarvi Samiel, il diavolo del Franco Cacciatore, intento a fondere le tre palle di moschetto. Avevo anche cominciato a scrivere un racconto che parlava di un leprotto molto grande, mezzo demonio mezzo Till Eulenspiegel, che appariva di sera e faceva dispetti alle ragazze. Non avevo ancora molto chiara la trama, ma mi sembrava un soggetto da cavarne una bella storia. Avevo descritto l’apparire delle lunghe orecchie dietro i tronchi, gli enormi baffi e il sorriso furbastro. E le ragazze che strillavano, tirandosi sù — chissà perché — le gonne. Una buona partenza. Ma quel leprotto cieco steso per terra era una cosa completamente diversa. E in quella mattina di ottobre finì la mia carriera di scrittore. Il resto della battuta me lo ricordo poco. Ricordo solo che, malgrado le solette e le tre paia di calze, gli stivali mi ballavano e appesantiti dal fango, ad ogni passo mi grattavano i talloni. Quando, come Dio volle, tornai a casa e me li tolsi, ero tutto impiastrato di sangue. Per diversi giorni potei portare solo ciabatte. Poi il giovanotto ci regalò la lepre e mia zia, che era una cuoca bravissima, la fece in salmì. Era molto buona ma anche molto grossa e in famiglia ci mettemmo alcuni giorni a finirla. Quando fu l’ora di tornare in collegio ero stufo di lepre e riuscivo appena ad infilarmi le scarpe.»


E.H.: «Non si direbbe un grande esordio. Ma se dovessimo fermarci alle impressioni della prima volta, parecchie cose non si farebbero più. Non si mangerebbero più ostriche, non si andrebbe più a vedere una corrida, non si farebbe più l’amore. Bisogna sempre concedersi almeno una seconda opportunità.»

«A dire il vero, io ho avuto un piccolo rigurgito di passione per la caccia. L’anno dopo, durante le vacanze. Il giovanotto che abitava di fronte a casa mia andava a lavorare nei campi e qualche volta andavo con lui. Un giorno portò anche la doppietta e me lasciò tenere. Se sbucava un fagiano o una pernice, potevo sparare. Io aguzzavo gli occhi, ma era passata quasi un’ora e non avevo ancora visto niente. Finalmente, a una decina di metri, venne a posarsi un uccellino. Stava lì, ondeggiando, sul pennacchio di una pianta di granturco. Non guardai nemmeno che uccello fosse. Forse una peppola o una cinciallegra. Piccolo, comunque. Presi accuratamente la mira. Era la prima volta che sparavo con una doppietta e ci misi un po’ a riprendermi. Intanto era arrivato di corsa il mio amico. Gli indicai il fusto di granturco troncato di netto a trenta centimetri dalla cima. Ci mettemmo a cercare, ma nel giro di qualche metro non c’era niente. Dopo un po’ lui tornò al lavoro e io continuai a setacciare il terreno in cerchi sempre più larghi. Forse l’uccellino era stato completamente disintegrato dal colpo ravvicinato, forse era volato via un attimo prima che sparassi. Fatto sta che non ne trovai traccia. Appoggiai la doppietta contro un albero e mi sedetti ad aspettare l’ora del ritorno. Ne avevo piene le tasche della caccia. Tra l’altro, il mio amico si era lasciato con la sua morosa di Trieste e non mi sembrava più tanto perfetto. Così finì anche la mia carriera di cacciatore. In quegli anni chiudevo carriere con grande disinvoltura.»

E.H.: «Troppa fretta. Lei ha perso due opportunità. Non ho idea di che cosa sarebbe diventato come cacciatore. Forse avrebbe provato emozioni tali da appassionarla, o forse no. Ma come scrittore, se avesse lavorato sodo, probabilmente qualcosa se ne poteva cavare. Ma bisogna sgobbare. Scrivere è fatica, è applicazione, è tecnica. Non basta avere buone idee. Io non ero l’ultimo arrivato, mi pare. Eppure, sa cosa facevo? Mi mettevo tutte le mattine davanti alla macchina da scrivere. E ‘lavoravo’. Avevo imparato un trucco: smettevo solo quando ero arrivato a un punto nel quale sapevo benissimo come andare avanti. Così la mattina dopo mi era facile riprendere. E poi limare, limare, limare. Economia. Raccontare con meno parole possibile. Ma economizzare tutto, anche gli argomenti, le storie. Mai disperdersi. Se ci sono varie tematiche, controllarle, tenerle in pugno. Per esempio. Lei ha incominciato raccontando di un paio di stivali. Che fine hanno fatto? Perché sono spariti? E il finale? Molti anni fa, in Spagna, ho conosciuto una vecchia signora. Non sopportava che una storia terminasse senza quello che lei chiamava ‘lo svolazzo finale’. Lo svolazzo finale è importante. È il sigillo.»

«Maestro, temo che per me sia troppo tardi per imparare a scrivere. Ma ha ragione. Gli stivali... certo. Quei benedetti stivali che avevo portato una volta sola e sui quali avevo fondato il mio avvenire di cacciatore, giacquero per un po’ buttati in un ripostiglio. E mi dispiaceva perché ci avevo messo tutti i miei risparmi e, alla lettera, un po’ del mio sangue. Per fortuna, dopo qualche mese, scoprii che non restavano più a intristire inutilizzati. Li adoperava mia zia.»

E.H.: «Andava a caccia, sua zia?»

«No. Mollava l’acqua nell’orto.»»

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